Donald Trump, il 45esimo presidente degli Stati Uniti, è una figura emblematica e divisiva: la sua presidenza è diventata una cartina al tornasole delle tante contraddizioni che attraversano gli USA. Ora, dopo aver stravolto per gli ultimi quattro anni l’America e il mondo, Trump è in cerca di un secondo mandato; come sempre, al grido nazionalista di “America First”.
La vita: dai grattacieli di New York alla Casa Bianca
Vita e destino di Donald Trump sono in gran parte legati alla città di New York, dove è nato nel 1946. La storia della sua famiglia ha però radici europee. La madre, Mary MacLeod, era arrivata negli Stati Uniti dalla Scozia a 19 anni in cerca di fortuna. Aveva invece incontrato Fred Trump, un immigrato di seconda generazione dalla Germania che all’epoca stava gettando le basi del suo futuro impero immobiliare: partendo da un modesto capitale, nel secondo dopoguerra Fred Trump sarebbe infatti diventato uno dei più grandi costruttori di abitazioni per la classe media di New York, realizzando quasi 30 mila appartamenti e ammassando poco a poco un patrimonio multimilionario. Un patrimonio su cui, nei decenni successivi, si sarebbe poi costruita la carriera di imprenditore del figlio Donald.
Dopo una laurea in economia all’università della Pennsylvania, Trump figlio segue infatti le orme paterne ed entra poco più che ventenne nel business del mattone. A differenza del padre, che si racconta perlustrasse i cantieri raccogliendo i chiodi dimenticati in giro dai suoi muratori, Donald si dimostra meno attento alla gestione dei costi: negli anni, tra le sue molte attività Trump colleziona anche una lunga serie di fallimenti e bancarotte; disavventure dalle quali uscirà sempre indenne, ma che alimenteranno voci di chi mette in dubbio gli effettivi successi della sua carriera imprenditoriale.
Dal padre, però, Trump ha ereditato un talento prezioso: quello del venditore. A cavallo degli anni ‘80, il futuro presidente consolida così un impero fatto di hotel, casinò e appartamenti di lusso e trasforma il proprio nome in un vero e proprio marchio. L’emblema è la Trump Tower - 58 piani sulla Quinta Avenue di Manhattan - sulla cui facciata campeggia, a caratteri inequivocabili e cubitali, il nome del suo costruttore. Un brand, costruito su tangibili basi di vetro e calcestruzzo, che si dimostra più forte degli attacchi di chi vorrebbe chiarezza su certi suoi affari opachi: la figura di Trump è ormai quella di un magnate e un “guru” del business, la cui filosofia è racchiusa in “Trump: The art of the deal”, metà autobiografia metà guida al successo negli affari, il libro pubblicato nel 1987 rimasto in cima alla classifica di vendite del New York Times per 13 settimane filate. Imprevedibile, arrogante e senza peli sulla lingua, Trump sembra il conduttore perfetto per “The Apprentice”, un reality show in cui i concorrenti, giovani imprenditori, competono per diventare “eredi” di Trump e imparare da lui i trucchi del mestiere. A partire dal 2004, The Donald sarà presentatore dello show per 14 stagioni, diventando uno dei volti più noti della tv americana.
Ad ogni dichiarazione, scandalo, comparsata tve nuovo grattacielo, la figura di Trump diventa sempre più presente sui media e sempre più conosciuta al pubblico. Non passa molto prima che qualcuno inizi a chiedersi se l’imprenditore non abbia, in fondo, mire politiche. Luisi tiene sul vago e, a confondere ulteriormente le acque, cambia più volte affiliazione politica, rilasciando negli anni dichiarazioni contraddittorie . È solo nel 2011 che annuncia pubblicamente di star considerando una sua candidatura alle primarie del partito repubblicano, in vista delle presidenziali dell’anno successivo. La notizia non viene presa troppo sul serio (alcuni pensano che la dichiarazione non sia altro che una trovata promozionale per la nuova stagione di “The Apprentice”), ma le ruote hanno iniziato a girare. Durante il secondo mandato di Barack Obama, Trump diventa sempre più apertamente critico delle politiche del presidente democratico e interviene sempre più spesso a eventi del partito repubblicano. Nel 2013, spende oltre un milione di dollari in ricerche sulle chance di una sua candidatura alla presidenza nel 2016. Finalmente, il 16 giugno 2015, il magnate lancia dalla Trump Tower il suo grido di battaglia: “Make America Great Again”. é ufficialmente in corsa per la Casa Bianca.
Le politiche: una presidenza fuori dalle righe
Quando Trump si presenta alle primarie del partito repubblicano in vista delle presidenziali del 2016, tra i membri del suo team l’idea è quella di raccogliere qualcosa come il 12% delle preferenze e finire secondi dietro il vincitore; una “candidatura di protesta”, senza convinzione che sia davvero possibile portare il miliardario imprenditore e showman a Washington. In uno storico colpo di scena, tuttavia, a novembre 2016 è proprio lui a ritrovarsi presidente degli Stati Uniti d’America (a quasi 71 anni, il più anziano di sempre a entrare in carica). Seguiranno quattro anni difficili da sintetizzare (ci hanno provato giornalisti e biografi, in libri dai titoli evocativi come “Rabbia”, “Paura”, “Fuoco e furia”) ma che sicuramente hanno segnato un punto di svolta nella storia recente, americana e mondiale.
È guardando agli slogan e ai tormentoni della comunicazione trumpiana che si possono passare in rassegna le sue grandi battaglie politiche. Con “Make America Great Again”, il presidente ha cercato di riportare indietro l’orologio della storia USA a un periodo più florido, ma anche più irresponsabile, della sua economia: ridimensionando la legge Dodd-Frank che aveva posto regole più stringenti sul mondo bancario e finanziario e portando gli USA fuori dall’accordo di Parigi sul clima. Grande promessa elettorale rimasta per ora incompiuta è invece la cancellazione dello “Affordable Care Act”, la riforma della sanità introdotta da Obama e fortemente osteggiata dagli ambienti conservatori. “Build the Wall” è stato poi il motto dietro le (numerosissime) politiche fortemente restrittive varate da Trump in materia di immigrazione, il cui emblema è l’avvio della costruzione di un muro al confine tra USA e Messico. “America First” ha invece definito il tono della politica estera del presidente: progressivo disimpegno dal Medio Oriente, guerre commerciali con la Cina, scontro con gli storici alleati europei.
Nei suoi quattro anni alla Casa Bianca, Trump è anche riuscito a entrare a far parte della ristretta cerchia di presidenti messi in stato di accusa dal Congresso. Con l’emergere dell’ombra di possibili interferenze russe in suo favore durante le elezioni del 2016, il presidente è infatti finito sotto impeachment con l’accusa di aver abusato dei suoi poteri e ostacolato le indagini su quel dossier bollente. Dichiarato colpevole dalla Camera, a maggioranza democratica, il presidente è stato invece assolto nel voto finale al Senato a guida repubblicana: un altro segno di quanto i cittadini americani e le loro istituzioni si siano divisi attorno alla figura di Trump.
Questo succedeva alla fine di gennaio. UN mese e mezzo prima dell’inizio dei lockdown e della battaglia contro il coronavirus che avrebbero cambiato il volto dell’America. L’epidemia e “Black Lives Matter”, una delle più grandi ondate di protesta della storia americana hanno stravolto le attese per la corsa per la Casa Bianca, rendendo via via più impervia la strada per la rielezione di Trump. I sondaggi lo danno in svantaggio di diversi punti sullo sfidante Joe Biden. Ma questo non significa che i democratici possano dormire sonni tranquilli: da qui a novembre può succedere di tutto e quando c’è di mezzo “The Donald” non si può mai escludere un colpo di scena finale.